Presentata la ricerca
nazionale Auser sui rischi connessi alla dipendenza dal gioco
Lo chiamiamo abitualmente “gioco”, ma spesso non è che
provochi tanto divertimento: esistono vere e proprie situazioni di dipendenza
che andrebbero trattate come patologie, con tanto di diagnosi, rischi e rimedi.
Come per qualsiasi altra malattia. Forse anche più grave di altre delle quali
normalmente ci preoccupiamo, vista l’alta incidenza sociale di questo fenomeno
che serpeggia anche tra chi non ne è minimamente consapevole.
Sono sconcertanti i dati rilevati dall’indagine “L'azzardo
non è un gioco - Gioco d'azzardo legale e rischio dipendenza tra le persone
over 65 incontrate da Auser”, condotta da Gruppo Abele, Auser Nazionale e in
collaborazione con Libera, che ha focalizzato l’attenzione sugli over 65 di 15
regioni italiane (Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia
Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Umbria, Piemonte, Puglia, Sicilia,
Toscana, Veneto). Il 70,7% dei
partecipanti all’indagine ha giocato
almeno una volta nel corso dell’anno precedente, prediligendo giochi
come Gratta e vinci e lotterie istantanee, Lotto e Superenalotto. E,
considerando anche le medie degli stipendi o pensioni percepiti da questo
campione di 1000 over 65, è allarmante il dato relativo all’ammontare giocato
dai così detti giocatori “patologici”, che arrivano a “investire” al solo scopo
di fare altro denaro cifre quali 1.500 euro per Bingo e Scommesse, 6.000 euro
per giochi di carte, 7.000 euro per le Slot e fino a 20.000 per la puntata
massima a giochi come Lotto e Superenalotto.
Leopoldo Grosso, vicepresidente del Gruppo Abele, evidenzia
le implicazioni sociali di questo fenomeno: «La ricerca, purtroppo, mette in
risalto la capillarità che ha raggiunto oggi il gioco d’azzardo in Italia e ne
conferma l’allargamento verso le aree tradizionalmente più indifese, costituite
soprattutto da minori, anziani e donne. I dati della ricerca - prosegue Grosso
- sembrerebbero far emergere stime superiori a quelle generalmente diffuse
sulla valutazione del gioco a rischio, sia per frequenza che per volume di
giocate. Ne deriva, a maggior ragione - prosegue il vicepresidente del Gruppo
Abele – l’importanza del coinvolgimento delle organizzazioni che aggregano la
popolazione interessata, perché possono avere un fondamentale ruolo di
informazione oltre che rappresentare un fattore protettivo per queste
categorie».
Secondo questa prospettiva, il dato che forse merita
maggiore attenzione è dunque quello della “consapevolezza” di essere già in una
situazione di rischio: mentre i giocatori a media/elevata gravità ammettono di aver
avuto qualche tipo di problema, quelli così detti “a rischio” non riconoscono
di averne.
E come per ogni malattia, la cura deve assolutamente partire
dall’(auto)individuazione dei sintomi.
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