sabato 8 marzo 2014

Gioco d’azzardo, c’è chi si gioca la pensione

Presentata la ricerca nazionale Auser sui rischi connessi alla dipendenza dal gioco

Lo chiamiamo abitualmente “gioco”, ma spesso non è che provochi tanto divertimento: esistono vere e proprie situazioni di dipendenza che andrebbero trattate come patologie, con tanto di diagnosi, rischi e rimedi. Come per qualsiasi altra malattia. Forse anche più grave di altre delle quali normalmente ci preoccupiamo, vista l’alta incidenza sociale di questo fenomeno che serpeggia anche tra chi non ne è minimamente consapevole.

Sono sconcertanti i dati rilevati dall’indagine “L'azzardo non è un gioco - Gioco d'azzardo legale e rischio dipendenza tra le persone over 65 incontrate da Auser”, condotta da Gruppo Abele, Auser Nazionale e in collaborazione con Libera, che ha focalizzato l’attenzione sugli over 65 di 15 regioni italiane (Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Umbria, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Veneto).  Il 70,7% dei partecipanti all’indagine ha giocato  almeno una volta nel corso dell’anno precedente, prediligendo giochi come Gratta e vinci e lotterie istantanee, Lotto e Superenalotto. E, considerando anche le medie degli stipendi o pensioni percepiti da questo campione di 1000 over 65, è allarmante il dato relativo all’ammontare giocato dai così detti giocatori “patologici”, che arrivano a “investire” al solo scopo di fare altro denaro cifre quali 1.500 euro per Bingo e Scommesse, 6.000 euro per giochi di carte, 7.000 euro per le Slot e fino a 20.000 per la puntata massima a giochi come Lotto e Superenalotto.
Leopoldo Grosso, vicepresidente del Gruppo Abele, evidenzia le implicazioni sociali di questo fenomeno: «La ricerca, purtroppo, mette in risalto la capillarità che ha raggiunto oggi il gioco d’azzardo in Italia e ne conferma l’allargamento verso le aree tradizionalmente più indifese, costituite soprattutto da minori, anziani e donne. I dati della ricerca - prosegue Grosso - sembrerebbero far emergere stime superiori a quelle generalmente diffuse sulla valutazione del gioco a rischio, sia per frequenza che per volume di giocate. Ne deriva, a maggior ragione - prosegue il vicepresidente del Gruppo Abele – l’importanza del coinvolgimento delle organizzazioni che aggregano la popolazione interessata, perché possono avere un fondamentale ruolo di informazione oltre che rappresentare un fattore protettivo per queste categorie». 
Secondo questa prospettiva, il dato che forse merita maggiore attenzione è dunque quello della “consapevolezza” di essere già in una situazione di rischio: mentre i giocatori a media/elevata gravità ammettono di aver avuto qualche tipo di problema, quelli così detti “a rischio” non riconoscono di averne.

E come per ogni malattia, la cura deve assolutamente partire dall’(auto)individuazione dei sintomi.

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